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Il risiko di Cameron


David Cameron

Il Regno Unito ha aperto un contenzioso con Bruxelles, chiedendo la revisione del Trattato che lo lega all’Unione. Ma è un Paese in declino e non ha la forza di porre troppe condizioni.


La lettera che il 10 novembre scorso David Cameron ha inviato a Donald Tusk per ridiscutere la partecipazione de Regno Unito all’Unione, non è nata sotto i migliori auspici. Appena tre giorni dopo, la carneficina di Parigi ha suscitato un orrore planetario e cambiato il clima nel quale era stata preparata. Servirà tempo perché l’attenzione possa tornare sui temi esposti in quattro punti, fra i quali emerge per importanza istituzionale la richiesta di essere sciolto dall’obbligo di una “ever closer union” e di riconoscere a raggruppamenti di Parlamenti nazionali il potere di contrastare i processi decisionali di quello europeo. Collegata a questa, vi è poi la richiesta che l’Unione debba avere “more than one currency” e che non vi debbano essere per gli operatori economici discriminazioni dipendenti dal tipo di moneta corrente nel loro Paese. Per essere ancora più chiara sul punto, la lettera chiede che sia rispettata la competenza delle Banche centrali dei Paesi non euro, in particolare della Banca d’Inghilterra, e che decisioni in grado di produrre effetti estesi siano discusse da tutti gli Stati membri. Bastano questi due punti per rendersi conto che Cameron non intende affatto capeggiare le piccole economie esterne all’eurozona e che gli è estranea la geometria dei cerchi concentrici, o delle due velocità, talvolta teorizzata per l’avanzamento della costruzione europea. Chiede all’Unione di allinearsi alle proprie esigenze e di cambiare pelle, trasformandosi in una semplice area di area di libero scambio. Ne avrà la forza? Il Regno Unito è un Paese in declino, come è in declino la sua relazione privilegiata d’oltreoceano. Proprio quando pensava di aver imboccato la strada della modernizzazione post industriale, nel 2008 ha sperimentato i limiti dell’ultraliberismo e della finanziarizzazione dell’economia con la bolla dei mutui sub prime. La prima banca a saltare ancor prima di quelle americane è stata l’inglese Northern Rock, quinto istituto britannico specializzato in mutui immobiliari, seguito a breve distanza da altri istituti di credito e di assicurazione come Bradford & Bingley, Lloyds Tsb, Royal Bank of Scotland. Governo e Banca centrale hanno dovuto impegnarsi in operazioni di nazionalizzazione e acquisto di bond per centinaia di miliardi di sterline, stampando moneta a volontà in plateale violazione dell’ortodossia economica insegnata nelle celebrate scuole di Londra, Cambridge, Oxford. Il debito complessivo del Paese (pubblico+privato) si è impennato oltre il 450 per cento del Pil affiancando il Giappone e superando ampiamente gli Usa (300 per cento), che del resto stavano adottando le medesime misure per tamponare una crisi sfuggita di mano (Invest. Banca, 2012). Alla debacle finanziaria si è accompagnata la contrazione del suo apparato industriale, che non può più contare sui settori di base protagonisti della sua grandezza. Tiene relativamente bene il settore automobilistico, ma la Jaguar e la Land Rover sono diventate indiane, la Vauxhall americana, la Rolls-Royce tedesca. Non è stato risparmiato nemmeno lo sport, se è vero che il Manchester United e il Liverpool sono in mano agli americani, il Chelsea e l’Arsenal ai russi. Il Regno Unito mantiene alcune eccellenze in settori avanzati come la chimica fine e la farmaceutica, dispone di proprie fonti energetiche, ma non ha più il Commonwealth. Per riprendere quota, ha bisogno di un grande mercato e, ad imitazione degli Usa popolati da 350 milioni di consumatori, guarda ai 500 milioni di europei. In controtendenza al declino inglese, nel cuore dell’Europa continentale è cresciuta enormemente la Germania. Secondo il Fmi, nel 2006 aveva un surplus commerciale di 180 miliardi di dollari, di poco inferiore a quello della Cina superata tuttavia nel 2013 (270 contro 185), con uno sviluppo sostenuto da produttività, riforme del lavoro ed un euro sottovalutato rispetto ad un ipotetico marco che varrebbe un 15% in più. Nonostante abbia dovuto impegnarsi in salvataggi bancari e sia adesso indebolita dallo scandalo Volkswagen, la Germania può continuare a contare su un solido apparato economico ed un avanzato grado di tecnologia. Avendo alle spalle questi fondamentali, da tempo non fa mistero di puntare alla leadership dell’eurozona e coltiva pertanto una linea diametralmente opposta a quella inglese. Quando cominceranno le trattative, se ci saranno, assisteremo allo scontro fra due politiche divergenti, anche se la Germania sarà portata ad addolcire le posizioni oltranziste di Schaeuble avendo tutto l’interesse a trattenere accanto a sé tutti i 19 Paesi euro, compresa un’Italia sempre ai limiti dei sacri parametri di Maastricht. Quale possa essere l’esito finale, è presto per dire. Per il momento è solo chiaro che Cameron non ha la forza per ottenere dall’Europa quel che chiede e d’altra parte non può farne a meno. Liberation si è interrogata su cosa voglia esattamente. Può darsi che stia cercando di portare a casa qualche risultato per risparmiarsi il rischiosissimo referendum del 2017, ma ha finito per mettere la testa tra l’incudine ed il martello. Non sarà certo Berlino a toglierlo da questa scomoda posizione.

 
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