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Quale road map per la Siria?


Cominciano a comparire le prime proposte di spartizione territoriale. Ma nessuna potrà avere successo, se non viene avviato un progetto di stabilizzazione del Mediterraneo


Nel tormentato territorio siriano, tra bombardamenti, distruzioni e decapitazioni, cominciano a fiorire le prime ipotesi di spartizione. Una è stata fatta filtrare attraverso il Corriere della Sera del 26 novembre con un articolo di Massimo Gaggi corredato dalla cartina sopra riportata, dove si vede che il territorio mesopotamico verrebbe smembrato in quattro Stati-Nazione rispettosi delle identità etniche e religiose in ciascuno prevalenti.

L’autore dell’articolo, storico corrispondente dagli Usa, non manca di far sentire la sua opinione e prende anzitutto le distanze dall’autore della proposta, John Bolton ex ambasciatore Usa all’Onu, ex vice Ministro degli Esteri di George W. Bush, attualmente senior fellow dell’American Entreprise Institute, think tank della destra repubblicana. Lo descrive come un diplomatico pirotecnico, architetto della sciagurata guerra di Bush all’Iraq e capace ancora di azzardi sconsiderati come un attacco preventivo agli impianti nucleari iraniani che sembra aver proposto di recente.

La cartina quadripartita parte dall’ovvia considerazione che i confini tracciati con riga e squadra da Sykes-Picot nel 1916 all’indomani della dissoluzione dell’impero ottomano sono saltati da un pezzo e bisogna pensarne di nuovi, rapportandoli alla situazione attuale. Così la creazione dell’Iraq sciita da Bagdad a Bassora rifletterebbe l’accordo con l’Iran sul nucleare, mentre il Kurdistan diventerebbe la “national home” della popolazione curda maltrattata dagli accordi di un secolo fa e dispersa in cinque diverse entità statali. Il Sunnistan farebbe la parte del leone per la forte prevalenza della popolazione sunnita e lo Stato alawita, ridotto ad una striscia di terra costiera, non sarebbe altro che la conseguenza della sostanziale defenestrazione di Assad, cui verrebbe lasciato un trono di legno.

E’ chiaro che il disegno riflette gli interessi dell’Arabia sunnita e per questa via degli Usa suoi storici alleati. Ma non è per niente chiaro come potrebbe essere accettato dalla Russia, che ha una lunga storia di amicizia con il regime degli Assad e ha piantato solide basi militari nel loro territorio, in particolare nella zona di Latakia e Tartus; non è chiaro nemmeno come potrebbe accettarlo la Turchia, che da sempre combatte i Curdi e vedrebbe come un oltraggio, oltre che come una spina nel fianco, il riconoscimento di un loro Stato indipendente.

Una idea simile non può pertanto avere altro esito che quello di fomentare la conflittualità, facendo il paio con la proposta di far entrare il piccolo Montenegro nella Nato. Nell’area non è in atto solo una guerriglia locale, ma soprattutto un conflitto mondiale per conquistare o controllare la più grande riserva petrolifera del pianeta. Dietro ai tagliagole dell’Isis, agiscono i grandi della terra che li usano e li finanziano per tirare le fila dalla propria parte, senza mettere al momento gli scarponi sulla sabbia. Se questa è la dimensione, il punto di partenza non può essere la geografia dei confini. Occorre preliminarmente una iniziativa, che guardi all’attuale ciclo della politica mondiale ancora confuso dopo il crollo dell’equilibrio bipolare della seconda metà del ‘900. Chi è stato presente al Convegno che abbiamo organizzato l’ottobre scorso a Vicenza proprio nell’imminenza del massacro parigino (L’Europa, L’Est ed il Mediterraneo), ha potuto sentire analisi e proposte per un nuovo ordine mondiale che l’aggravarsi della crisi siriana rende sempre più attuali. Chi non ha potuto esserci, può leggerle nella sintesi che ne abbiamo fatto su queste pagine e nel policy paper lasciatoci da Lucio Levi. La sola alternativa al caos nel quale stiamo precipitando è la costruzione di un ordine multipolare senza egemonie, superando la crisi storica dello Stato nazionale e tenendosi pertanto ben distanti da ipotesi come quella di Bolton.

Per una operazione politica di questa ambizione, non si può fare a meno di partire dalle organizzazioni internazionali esistenti ed in particolare dall’Onu, che pur con molti limiti può esercitare un ruolo di richiamo e coordinamento. Ma occorre anche qualcosa di più specifico per il Mediterraneo, facendo ripartire su basi diverse il processo di Barcellona del ’95. Allora si era puntato tutto sulla cooperazione economica tra le diverse sponde bagnate dallo stesso mare, mentre adesso bisogna pensare anzitutto alla sicurezza. Tornano quindi i temi della politica estera europea, dell’esercito, dell’apparato di polizia e di intelligence. Sappiamo che non c’è ancora il necessario accordo e che il Ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière al termine di un recente vertice ha dichiarato di non riuscire ad immaginare cessioni di sovranità su questi punti. Ma le alternative al progetto europeo rimangono sempre l’irrilevanza ed il declino.

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