La Germania, la Turchia ed il Papa

La Germania ha riconosciuto il genocidio armeno, irrigidendo le relazioni con la Turchia.
La visita di Papa Francesco al memoriale di Yerevan il prossimo 24 giugno riaccenderà la polemica
All’inizio di questo mese, il Bundestag, il Parlamento federale tedesco, ha approvato a larga maggioranza una risoluzione che riconosce il genocidio armeno ad opera dell’Impero Ottomano. Un passo politico grave, cui la Turchia ha reagito subito polemicamente, rispondendo che il riconoscimento veniva da un Paese titolare del copyright di tutti i genocidi e richiamando per consultazioni il proprio ambasciatore a Berlino. In poche ore, si sono irrigiditi i rapporti bilaterali ed anche quelli con l’Unione europea, che stava valutando alcune misure di buon vicinato come la concessione di visti d’ingresso per i cittadini turchi. A poco è valsa la dichiarazione del Presidente dell’Assemblea tedesca Norbert Lammert che ha tenuto a precisare come il Governo in carica non possa essere ritenuto responsabile di quei lontani fatti e come del resto un Parlamento non possa essere considerato una commissione di storici. Erdogan non ha mascherato la sua irritazione e ha annunciato conseguenze, pur mantenendo un minimo di dialogo personale con la Signora Merkel che cautamente non ha partecipato alla votazione.
Anche se l’incendio diplomatico si è un po’ smorzato nei giorni successivi, resta da capire perché la Germania abbia voluto accodarsi al novero dei Paesi come Italia, Francia, Grecia e Russia, che già avevano proceduto al riconoscimento. Una prima spiegazione si può trovare nelle trattative per la creazione di una barriera alle rotte balcaniche degli immigrati in cambio di 6 miliardi di finanziamenti. Sono cominciate male e stanno andando peggio con recriminazioni da entrambe le parti, per cui un incidente diplomatico era prevedibile. Non è sorprendente cioè che la Germania abbia voluto rispondere ai tatticismi, alle astuzie e alle scorrettezze di cui Erdogan è maestro, con una mossa clamorosa per riprendere in mano il filo del gioco.
Poteva però accusarlo di essere corrotto, illiberale, di intrattenere traffici poco chiari con l’Isis, di perseguitare giornalisti e minoranze, buttando benzina sul fuoco di polemiche già in corso. Non l’ha fatto e gli ha rovesciato addosso un argomento aggiuntivo, il più forte e pungente di tutti, sapendo che non vuol sentir parlare di genocidio ed è disponibile ad ammettere soltanto che alcuni massacri sono effettivamente avvenuti nel contesto della prima guerra mondiale. Ha quindi avuto il coraggio di tirar fuori un argomento ancora controverso e per essa stessa scomodo, perché era alleata della Turchia e in qualche misura corresponsabile di quei tragici fatti.
Essendosi spinta a tanto, bisogna pensare che la Germania coltivi un obiettivo più ampio del semplice accordo sugli immigrati: arginare il protagonismo di Erdogan. Per rimanere agli anni più recenti, nel 2011 il leader turco ha sfruttato i sommovimenti delle primavere arabe, ponendosi come referente islamico ed in particolare sunnita lungo tutta la costa dalla Tunisia alla Siria. Ha abbandonato la sua precedente dottrina di buon vicinato con tutti e non ha esitato a scontrarsi con la Russia e l’Iran per espandere l’area della sua influenza verso sud est. Con gli Usa ha tenuto fede ai Trattati esistenti, ma li ha forzati parecchio snaturando i termini di partecipazione alla Nato, che ora lo considera un alleato poco affidabile. Le sue ambizioni comprendono anche l’Africa. La votazione di Berlino lo ha colto a Mogadiscio, dove si era recato per inaugurare la 23a ambasciata turca nel continente nero in un progetto che ha le sue roccaforti in Somalia, Sudan, Tanzania, Kenya e mira a avere rappresentanze in tutti i 52 Stati. Una rapida occhiata al quadro internazionale porta pertanto a pensare che la Germania si sia mossa d’intesa con diversi alleati e abbia ottenuto gradimenti diffusi, guadagnando influenza nel quadrante medio orientale dove la crisi siriana continua a rimanere il perno di tutto.
In questo momento, Erdogan è in difficoltà in questioni di politica interna e sta reagendo con una svolta autoritaria. Ha messo sotto inchiesta diversi deputati dell’opposizione, togliendo loro l’immunità parlamentare e ha sostituito al Governo il vecchio amico Davutoglu con lo sconosciuto Yildirim, che si è affrettato a giurargli fedeltà assicurandogli il controllo del potere esecutivo senza l’intrigo della riforma costituzionale. Di fronte ai ripetuti attacchi terroristici, sta consentendo alla polizia di usare la mano pesante, in violazione non solo delle regole della democrazia ma anche dei diritti fondamentali, mettendo a repentaglio il vasto consenso popolare ottenuto alle ultime elezioni. Il richiamo ad una responsabilità storica della Turchia gli mette ora ulteriore pressione e sembra obbedire ad una scelta di politica internazionale molto ponderata e gravida di effetti.
Vedremo più avanti quali potranno essere, prendendo intanto nota della visita del Papa in Armenia il prossimo 24 giugno. La Turchia l’ha avversata, ritenendosi offesa dalle parole pronunciate l’anno scorso, quando Francesco ha definito la tragedia degli armeni “il primo genocidio del ventesimo secolo”. Ma è riuscita solo a procrastinarla e deve adesso sopportare un nuovo urto da parte del medesimo Pontefice, che recandosi al memoriale di Yerevan farà sentire la propria vicinanza ad un popolo duramente colpito dalle brutalità della storia.