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La scelta della GB: “leave”!


Brexit


Sono settimane che il fantasma della tanto temuta Brexit aleggia sull’Europa tutta, lasciando col fiato sospeso i Paesi dell’Unione. Ora il risultato tanto atteso, sia dai favorevoli sia dai contrari all’uscita della Gran Bretagna dall’UE, è giunto. Niente più silenzi e bisbigli, niente più ipotesi o pronostici. Finalmente questo voto ha un volto. Ed è il volto del “leave”.

Ripensando alle origini del referendum sono sicuramente da indagare le ragioni dei due schieramenti: da una parte il fronte del leave e dall’altra quello del remain.

I primi vedono l’Unione Europea, e Bruxelles in particolare, come un vero e proprio nemico da sconfiggere, un fronte da abbattere, un guinzaglio troppo stretto per il Regno di Sua Maestà. Non è un problema di “incompatibilità” con il popolo del continente in generale, ha tenuto a precisare in un’intervista Lawson, ex braccio destro del Primo Ministro Thatcher. Egli, invece, sottolinea come il progetto europeo nel suo complesso sia in aperto contrasto con le idee della GB, che da sempre cerca di ritagliarsi uno spazio di autonomia. Non si tratta di un vero e proprio allontanamento da tutte le potenze occidentali o di una manovra di vero e proprio isolamento, sostiene il fronte del sì all’uscita dall’UE, mentre i mercati impazziscono cercando di prevedere come andrà a finire questa storia. Si sottolinea come il vero problema alla base dell’Europa sia una mancanza di democrazia, di senso di appartenenza che invece ogni essere umano sente, o dovrebbe sentire, nei confronti della propria nazione e che nella coscienza dei “cittadini europei” manca quasi del tutto.

Eppure c’è chi non la pensa così ed è pronto a contrattaccare. Primo fra tutti l’attuale Primo Ministro David Cameron, che si trova ora a dover gestire una rivoluzione, uno sconvolgimento nell’etica e nei costumi. Il Premier inglese continua a sottolineare, è vero, la grande forza della Gran Bretagna, del suo amato Paese, che egli è stato onorato di servire, ma si ritrova ad ammettere che solo “inizialmente” non ci saranno conseguenze per l’Inghilterra, che soffrirà in particolare l’esclusione dal mercato unico. Già oggi le borse sono partite in ribasso e il valore della sterlina è calato a picco rispetto al dollaro. I mercati sono in fermento, tutti avevano scommesso sul “remain”. E si possono sentire da qui le telefonate nervose dei borsisti, restati svegli tutta la notte per cercare di captare ogni possibile segnale di disfatta.

E ormai è andata. Con un’affluenza superiore all’80% il Regno Unito ha deciso. Il referendum, promesso da Cameron stesso, ha visto la vittoria di un elettorato che non vuole più i “compiti a casa” di Bruxelles e i diktat dell’UE, ma che vuole “Britain first”, che il loro Paese si chiuda agli “immigrati”, che, strano a dirsi da noi, sono italiani, spagnoli, francesi e tutti i cittadini europei che in Inghilterra trovano “fortuna” e un lavoro. Una vittoria non schiacciante, appena il 52%, ma che sta sconvolgendo il volto del mondo che fino ad ora abbiamo conosciuto.

Questa giornata, il 24 giugno, anniversario dell’incoronazione di Enrico VIII - autore dell’altro grande scisma -, resterà per sempre nella nostra memoria a causa di due grandi paure che ora aleggiano su di noi: da una parte il timore di una possibile Frexit, sponsorizzata dall’agguerrita Marine Le Pen, dall’altra la possibile separazione di Scozia e Irlanda del Nord dal Regno Unito, la fine di un’unione che resiste dal 1707.

Solo ieri Enrico Letta metteva in luce le problematiche legate a questa scelta, chiedendosi cosa potrà mai fare un’Europa piccola e spezzettata, divisa da mille partirti che chiedono indipendenza, autonomia, “secessione”, divisione di fronte a colossi come la Cina o gli USA.

L’unica soluzione è sicuramente cambiare l’impostazione dell’Unione, riscoprire i valori che ci uniscono rispetto ai nostri motivi di separazione e seguire le indicazione del Presidente del Consiglio europeo Tusk: l’UE deve essere la cornice di un futuro comune, di qualcosa di assolutamente nuovo e fresco, perché “ciò che non ti uccide ti rende più forte”. È questo il motto che ha ricordato Tusk, facendo riferimento al padre polacco che ha superarto il nazismo e il comunismo, quasi a voler sottolineare che nelle grandi crisi ci sono e ci saranno sempre persone capaci di superare le situazioni difficili.

E mai situazione è stata più difficile di questa: Cameron ha dichiarato al numero 10 di Downing Street le sue dimissioni davanti alla nazione tutta, sottolineando come egli abbia promosso le proprie idee poggiandosi sul dibattito democratico e pacifico, al pari di chi ha sostenuto la posizione del leave. Il Premier, che rimarrà comunque in carica fino ad ottobre per accompagnare il periodo di transizione, inizierà le procedure d’uscita, mantenendo la promessa fatta agli elettori e la sua coerenza, lasciando al nuovo Primo Ministro il compito di avviare le rinegoziazioni con l’UE. Egli ha sottolineato come questa non sia stata una decisione presa alla leggera, ma sia stata una scelta necessaria, che cambierà la vita di chi abita in Inghilterra e non è cittadino inglese, anche se progressivamente e lentamente, per accompagnare il cambiamento.

E adesso si ricorda come gli Inglesi abbiano votato, come la Scozia, che tenderebbe a chiedere l’indipendenza, abbia votato per il remain, e come la City di Londra e in generale i giovani fra i 18 e i 24 anni abbiano sostenuto il sogno europeo, esprimendo con il loro voto la speranza di restare in un’ Europa più grande e sicura, in un mondo più aperto e forte.

Quali saranno le conseguenze di questa scelta è difficile dirlo. Non c’è un finale certo di questa storia, non è come rileggere per l’ennesima volta il finale di Harry Potter, sapendo che alla fine il Signore Oscuro perderà e il bene trionferà. Qui è ben più difficile. Non c’è un bene o un male, non c’è giusto o sbagliato. Ci sono solo idee.

Ritengo che ormai i giochi siano fatti e che se la maggior parte degli Inglesi ha deciso di uscire dall’Unione Europea noi tutti ne dobbiamo prendere atto e non possiamo di certo accettare compromessi o “sconti fedeltà” con i nostri amici d’oltre Manica. Ma possiamo prendere questa decisione come un’avvisaglia, come un segnale, come un prezioso indizio: l’Europa è un bellissimo progetto, ancora giovane, ma che ha bisogno di coraggio e forza per essere realizzato.

È, quindi, arrivato il momento di iniziare a lavorare, di cambiare i Trattati, di creare una vera identità europea, di non smettere di credere in questo sogno, altrimenti la Gran Bretagna sarà solo il primo Paese ad abbandonarci.

E in questo mondo nuovo, un mondo che si alza con una nuova Europa, quella dei 27, è più che mai da temere la felicità di Donald Trump, che dalla Scozia, in cui è volato per inaugurare i campi da golf da lui sovvenzionati, commenta con gioia questa scelta.

Senza capire che “nessun uomo è un’isola”, come disse John Donne. E sicuramente mai come oggi nessun Paese può considerarsi solo al mondo, un’isola felice.

Avalon non tornerà per gli Inglesi. Per loro è forse iniziato il periodo più oscuro. Le bianche scogliere di Dover oggi salutano Calais e il continente come vecchi amici che dopo tanti anni di vicinato sono prossimi al commiato. Sempre con garbo, of course. Siamo in Inghilterra.

 
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