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La cultura nella società dei consumi



Mi ero tenuto il nuovo libro di Bauman, “Per tutti i gusti – la cultura nella società dei consumi”, per dopo gli esami, in modo da poterlo leggerlo attentamente. In realtà, non ho resistito; fattomi prendere dalla curiosità, l’ho iniziato con un paio di giorni d’anticipo sulla tabella di marcia. Mi aspettavo 150 pagine dense di informazioni e di tesi, e così è stato. Bauman ha la straordinaria capacità, a mio parere, di complicare ciò che è semplice. Hemingway diceva che un bravo scrittore è chi si fa comprendere dai lettori quando parla di argomenti complicati e tecnici, Orwell consigliava “non usare una parola lunga quando è possibile usarne una corta”. Ecco, Bauman è molto distante da questi due avvisi. Tuttavia, secondo me la gente lo legge per due motivi:

  1. Scrive libri pieni di tesi interessanti;

  2. Perché è molto di moda, nel panorama della sociologia. Dire “ho letto Bauman” fa abbastanza figo.

Come ho già scritto qualche mese fa (link), non mi trovo in linea con l’analisi estremamente pessimista che ci dà l’anglo-polacco della nostra società. Quest’ultima lettura ha rinforzato la mia posizione: tant’è che, verso la conclusione del libro, scrive che ha dubbi che la cultura sopravviva al cambiamento di mentalità che sta portando la sua tanto odiata società liquida. La sua argomentazione è che all’arte (in senso lato) ormai non si pensa più come opera culturale, ma come pozzo da cui trarre guadagno. A suo avviso, il fatto che ora l’arte venga gestita da managers, curatori e direttori museali è la dimostrazione che il fine ultimo dell’arte sia il profitto. “Un artista è famoso perché è famoso”. Proprio come lui è “famoso perché è famoso” (peraltro credo che “famoso” sia una delle parole più brutte che abbiamo in italiano, assieme a “petaloso”, che per fortuna il correttore di Word mi segna ancora come sbagliato).

Ora, vi do la mia opinione. Credo che Bauman stia capendo ben poco della rivoluzione ora in atto. Sì, è tutto in movimento, veloce e inafferrabile, ma ciò non significa che il mondo andrà. Lui si chiede se la cultura “sopravvivrà a questo cambiamento”, e io gli rispondo Sì, certo che sì! Spiegare il perché è molto facile. Secondo Bauman, il problema è che l’uomo contemporaneo ingurgita una quantità spropositata di cultura, senza magari apprezzarla veramente. Tuttavia, mi sembra semplice (e meno polemico), spiegare i motivi per cui la cultura è diventata “per tutti i gusti”, e non per una ristretta élite di persone. Prima di tutto, l’educazione secondaria, che ci dà il gusto dell’arte e la curiosità di scoprire cose nuove. Poi, internet e il mondo delle informazioni: quando sono stato a vedere la mostra di Hayez e sono arrivato davanti alla deposizione del Foscari, non sapevo nulla dell’evento storico. Non che fosse un problema: aperta Wikipedia, ho trovato tutte le informazioni di cui avevo bisogno. Wikipedia e Internet hanno democratizzato l’arte. Un altro motivo per cui la cultura si è allargata è la disponibilità di tecnologia a basso prezzo. Vi faccio un esempio: se nell’Ottocento una camera fotografica era molto costosa e difficile da usare, ora tutti possono comprarsi una signora reflex con 500€. Ecco spiegato il moltiplicarsi degli appassionati di fotografia. Ciò NON significa che tutti diventano Robert Capa, ma è un crimine? A mio parere, assolutamente no! Bauman nota che prima dei managers, la cultura era amministrata dallo Stato, che filtrava ciò che piace e ciò che si poteva mostrare. Secondo me, questo cambiamento non porta in sé nulla di tragico. Anzi, è segno di una maggiore specializzazione nel mondo dell’arte. Di fronte ad un cambiamento della domanda, anche l’offerta è cambiata. A mio parere, degli esperti del settore che lavorano da indipendenti (e non per lo Stato) garantiscono un miglior servizio, perché devono proporre eventi e mostre di qualità. Se non lo facessero, il responso da parte del pubblico sarà inequivocabile. Inoltre, il problema della censura (volontaria o no) non si pone nemmeno più. È il popolo che decide cosa vuole vedere, non più lo Stato.

Se la società liquida ha democratizzato ed esteso la cultura, credo che dobbiamo solo esserle riconoscenti, invece che attaccarla. A Bauman piace il mondo solido, pieno delle certezze che danno le ideologie. Mi sembra una versione avanzata intellettualmente del vecchietto del bar che ti dice “si stava meglio quando si stava peggio”. Personalmente, non trovo alcun motivo per attaccare nel modo in cui ha fatto lui la nuova cultura. D’altro canto, il libro è pieno di passaggi più felici, che condivido. Dalla minaccia del multiculturalismo (che tende a dare per scontate le differenze sociali: se sei marocchino, avrai sempre un posto specifico nella società, perché tale è la tua cultura) ai problemi della cultura europea, che deve offrirsi come modello sovranazionale pur garantendo le diversità nazionali, che sono il vero patrimonio del nostro continente. Questo lo scrive Bauman, e mi trova perfettamente d’accordo.

Tuttavia, rimango della mia opinione: Bauman è “famoso perché è famoso”, e vive sulla cresta di una moda che lui stesso critica, campando su chi non crede in questa società. Lui è il sommo leader di quelli che io chiamo “avvoltoi del nuovo millennio”, che faticano ad accettare il cambiamento. Eppure, se lo vivessimo in modo sereno e attento, senza inutile e noiose polemiche, ci accorgeremmo delle opportunità che ci stanno venendo offerte.

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